Prigionieri della libertà
Prigionieri della libertà

DAL 28 GIUGNO AL 25 SETTEMBRE 2005

La straordinaria avventura degli ufficiali italiani in Himalaya durante la seconda guerra mondiale

La storia dei prigionieri italiani della Seconda guerra mondiale è uno dei capitoli più affascinanti e insospettabili del tragico evento.

Fughe rocambolesche, marce massacranti, incontri straordinari, traversate di territori selvaggi emergono anno dopo anno dalle ricerche degli storici, offrendoci l’ immagine del tutto inedita dei nostri soldati che, allontanandosi dai campi di internamento, si trovavano a indossare le vesti non solo dei transfughi, ma anche degli esploratori, degli alpinisti e degli avventurieri. E in effetti si trattò di un campionario umano piuttosto ricco e vario, se è vero che gli italiani catturati dagli anglo-americani sui diversi fronti ammontarono a circa 600 mila.

Vi fu chi nel tentativo di fuga attraversò una parte dell’ America, compresi i suoi deserti, come ci ha raccontato Gianni Riotta in Alborada, chi percorse tutta l’ Africa e chi puntò invece lo sguardo sulle montagne, come fece Felice Benuzzi, che nel campo di prigionia 354 Pow in Kenya non poteva dimenticare le appassionanti giornate di arrampicata sulle Dolomiti insieme a Emilio Comici. La sua evasione per scalare il Monte Kenya è consegnata a un volume, Fuga sul Kenya, che ha totalizzato quattro edizioni italiane (le ultime due del Centro Documentazione Alpina di Torino, dove i cimeli di Benuzzi sono esposti al Museo della Montagna) e 25 straniere, divenendo uno dei libri di lettura delle scuole anglosassoni.Proprio in questi giorni si torna invece a parlare del campo di Yol, nel Nord dell’ India, ai piedi dell’ Himalaya, dove vennero rinchiusi circa 10 mila prigionieri, in gran parte ufficiali, catturati sui fronti della Grecia e dell’ Africa settentrionale.

L’occasione è il film Prigionieri della libertà, realizzato da Fredo Valla, giornalista, scrittore e documentarista, noto per il lavoro condotto intorno alle minoranze linguistiche delle valli occitaniche del Piemonte. Con lo stesso titolo presso il Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà (in corso Valdocco 4/a, Torino) è stata inaugurata perfino una mostra.Dopo la cattura, i futuri prigionieri di Yol, fra i quali figuravano funzionari e civili dell’ amministrazione imperiale italiana in Africa, erano stati ammassati in un campo nel deserto egiziano. Di lì presero il mare su vecchi piroscafi, che fecero rotta verso l’ India coloniale inglese. A Bangalore trascorsero poco meno di un anno, nel solito scenario di tende e filo spinato, stupiti dalla violenza delle piogge monsoniche.

Per comunicare con i parenti in Italia non c’ erano che le cartoline prestampate fornite dagli inglesi: si potevano solo barrare delle caselle con didascalie in un incerto italiano e firmare.Da Bangalore il viaggio riprese e questa volta la meta era il Nord dell’ India. I prigionieri toccarono Madras, Bhopal, Agra, Delhi, Lahore, fino a Yol, acronimo di Young Officer Lane, «la strada del giovane ufficiale», ai piedi delle prime catene che separano l’ Himalaya dalla pianura del Punjab. Il film racconta le storie di Giorgio Vuxani, di Luciano Davanzo, di Guido Fuselli, di Giacinto Ferrero e di molti altri, che della grande avventura della loro vita hanno lasciato appunti, disegni, qualche vecchia istantanea. La città-prigione era composta di baracche, ancora oggi visibili, dove le giornate erano scandite dall’ interminabile rito della conta dei prigionieri. Alcuni tentarono di fuggire verso Goa in mano ai portoghesi o verso la Birmania occupata dai giapponesi, altri non ce la fecero e si suicidarono, la maggior parte per ammazzare la noia cercò di impegnarsi in qualche attività.

Approfittando della presenza di intellettuali e professionisti, al campo 26 venne organizzata la Libera università di Yol. Ma la grande attrattiva era l’ India che stava oltre il filo spinato, il Paese conosciuto nell’ adolescenza attraverso i libri di Salgari e di Kipling. Si stabilirono i primi contatti, ci fu qualche baratto di viveri e non mancò chi si spinse oltre, mettendo al mondo dei figli o addirittura sposandosi, con storie alla Butterfly.Poi qualcuno cominciò a levare lo sguardo sulle montagne che incombevano sul campo. Dopo l’ 8 settembre gli ufficiali che giurarono fedeltà alla nuova Italia di Badoglio dietro la loro parola di gentiluomini ottennero di uscire. Già nell’ ottobre del 1943 un gruppo di prigionieri raggiunse una cima di 4.690 metri, seguita nel novembre dai 4.800 metri del Lena, battezzato per la sua forma piramidale il «Cervino del Dhola Dhar». Nella primavera successiva venne conquistato il primo 5.000 e i prigionieri rimasero ammirati dalla vastità degli orizzonti che si spalancavano davanti ai loro occhi.

Nell’ estate del 1945 in Giappone esplodevano le due atomiche americane e in Europa la guerra era finita, ma a Yol si progettavano nuove ascensioni. Le squadre erano sempre più numerose e, nonostante l’ attrezzatura improvvisata, le mete superavano ormai i 6.000 metri. Una base avanzata venne stabilita a Manali, un villaggio tra boschi di cedri in cui villeggiavano gli inglesi e qualche indiano ricco. Venne superato il Rhotang Pass, le cui bufere avevano decimato le armate mongole di Gengis Khan, e il 15 giugno un gruppo di 13 ufficiali conquistò una cima vergine di oltre 6.000 metri. Il 22 giugno fissarono il campo base alla testata di un ghiacciaio e di lì sferrarono l’ assalto finale a una seconda cima mai salita. Era alta 6.166 metri e fu battezzata Cima Italia.

Accanto all’ alpinismo vero e proprio, non mancarono spedizioni esplorative, come quella tentata da tre ufficiali nel settembre 1945. Dopo 19 giorni di marcia lungo le carovaniere, superando passi di 5 e 6.000 metri, raggiunsero il lago Moriri a 4.530 metri, ormai ai confini con il Tibet. La loro storia è stata raccontata dal giornalista e scrittore Carlo Grande in un libro intitolato La cavalcata selvaggia (Ponte alle Grazie).

Su questo alpinismo di prigionia, praticato con poveri mezzi in anni in cui nessun 8.000 era stato ancora raggiunto, dovranno essere condotte ricerche più approfondite. Ma già da quanto conosciamo emerge un’ immagine degli italiani lontana dai soliti luoghi comuni. In quegli ufficiali confinati in una remota provincia indiana viveva qualcosa dello spirito del duca degli Abruzzi, del generale Nobile, del professor Desio. Inseguendo il fantasma della libertà, anche quegli arruffati ulissidi in grigioverde avevano voluto dare un contributo all’ esplorazione di una catena montuosa che di lì a pochi anni, con la conquista dell’ Everest, del K2 e degli altri giganti himalayani, sarebbe balzata agli onori della cronaca.

Richiesta informazioni

Informazioni sul noleggio

Alcune mostre prodotte dal Museo sono disponibili al noleggio. Per verificare la possibilità di noleggio o per chiedere informazioni aggiuntive, è possibile compilare il form sottostante.

Mostra: Prigionieri della libertà